La Cina ha trascinato per ben due volte le borse mondiali nel baratro questa settimana. Ma non tutti i media ufficiali che si occupano di finanza hanno spiegato con chiarezza il processo che ha determinato questi due crash consecutivi.

Per capire meglio l’accaduto, è necessaria una premessa.

Dopo i precedenti crash della borsa cinese di questa estate, il governo aveva deciso una misura drastica per tentare di prevenire altre cadute.

La misura veniva chiamata “circuit breaker” ed era entrata in vigore il 4 gennaio.

Il suo funzionamento era così determinato:

  1. se la borsa cade del 5% in un giorno, resterà chiusa per 15 minuti.
  2. se alla riapertura si verifica una ulteriore caduta fino al 7%, la borsa verrà chiusa per l’intera giornata.

Ecco invece com’è andata questa settimana a causa del circuit breaker:

Quando i prezzi dei titoli hanno iniziato a scendere, gli investitori si sono affrettati a uscire prima che scattasse la chiusura forzata stabilita al -5%.

In seguito, quando la soglia del -5% è stata raggiunta, si è verificato il panic selling con una valanga di ordini di uscita di tutti gli altri investitori che erano rimasti nel mercato e che hanno tentato di scappare prima della chiusura completa della borsa alla soglia del -7%.

In pratica, il circuit breaker invece di prevenire il crollo della borsa, lo ha in qualche modo alimentato e affrettato.

Devo dire per amore di verità che il circuit breaker è una misura del tutto normale nei mercati ed è stata implementata anche altrove.

Ad esempio, il mercato USA ha un circuit breaker in tre fasi che funziona così:

  1. se la borsa crolla del 7%, il mercato viene chiuso per 15 minuti.
  2. alla riapertura, se il crollo continua fino al 13%, si chiude per altri 15 minuti.
  3. alla riapertura, se il crollo si spinge fino al 20%, si chiude per l’intera giornata.

La differenza tra questo circuit breaker e quello cinese, sta ovviamente nella dimensione delle soglie.

Il -5% e il -7% del breaker cinese sono soglie troppo strette. Perciò il governo per ora ha sospeso questa misura in attesa di riorganizzarla in modo più ragionevole, si spera.

Ho già parlato della Cina in diverse email per gli iscritti a Segnali di Borsa e soprattutto in questo articolo, che in particolare discuteva se fosse opportuno investire puntando sull’ingresso dello yuan nel paniere di valute del Fondo Monetario Internazionale.

L’articolo consigliava anche due etf che consentono di investire, con diversi gradi di rischio, in obbligazioni in yuan nella prospettiva di un progessivo rafforzamento di questa valuta.

Gli Etf consigliati non hanno risentito del crollo delle borse, in quanto sono legati allo yuan, più che alla performance dei titoli cinesi.

(E in queste settimane in cui quasi tutti i settori perdono al ritmo di due cifre percentuali alla volta, questi etf hanno dato una protezione invidiabile!)

Difatti, tengo a precisare che, per quanto mi riguarda, il quadro complessivo di riferimento entro cui era stato scritto quell’articolo e consigliati gli etf non è affatto cambiato.

Questi crolli di borsa sono solo aspetti di uno scenario molto più vasto e destinato a svilupparsi nel lungo periodo.

L’affermazione dello yuan a livello globale sarà una “lunga marcia” fatta di battute d’arresto e di balzi in avanti.

Lo stile con cui la Cina sta tentando di far affermare la sua valuta nel mondo è del tutto diverso da quello con cui gli USA hanno fatto lo stesso con il dollaro.

La Cina non usa, per ora, una strategia basata sulla guerra, sull’indebitamento forzato di intere nazioni e sui ricatti politici, valutari e finanziari.

Al momento, la Cina, di concerto con la Russia e con le nazioni “emergenti” comunemente chiamate BRIC, sta semplicemente dando vita ad istituti finanziari paralleli a quelli occidentali allo scopo di creare il supporto tecnico alla diffusione globale della sua valuta.

Nel frattempo, sta rinegoziando precedenti rapporti di partnerariato economico in modo che per un numero crescente di nazioni l’utilizzo dello yuan negli scambi commerciali potrà essere sempre più vantaggioso.

La più clamorosa e interessante di queste misure è quella nei confronti degli Stati africani, con cui la Cina collabora da decenni in competizione con l’India.

Le indispensabili infrastrutture che la Cina ha creato e continua a creare in questi Paesi non saranno più implementate solo in cambio di materie prime, che ora la Cina sta importando in misura molto minore che in passato, ma anche in cambio dell’utilizzo dello yuan da parte di queste nazioni.

Addirittura, la Cina ha anche proposto ad alcuni Paesi, come lo Zimbabwe, di sostituire la propria valuta nazionale inflazionata, con lo yuan.

E sembra che proprio lo Zimbabwe stia esaminando seriamente l’adozione di questo “yuan zimbabwese”…

La valuta cinese viene poi costantemente preservata dalla corsa alla svalutazione che invece quasi tutte le altre nazioni al mondo stanno perpetrando da anni.

In questo articolo sul mio blog Rischio Calcolato, uscito non a caso subito dopo il crash della borsa cinese, ho spiegato come la Cina utilizzi la vendita di obbligazioni americane per controbilanciare i deficit di bilancio senza fare altro debito, allo scopo di preservare la stabilità dello yuan.

Si tratta di una tattica completamente diversa da quella adottata dal resto dei paesi emergenti, che sono invece orientati più che altro a mantenere in attivo la bilancia commerciale salvando le esportazioni grazie alle svalutazioni competitive delle loro valute.

La Cina quindi ha una politica molto chiara a riguardo, che si distacca completamente da quella di qualsiasi altra nazione eccetto gli Stati Uniti.

Cina e Stati Uniti infatti hanno il medesimo obiettivo: promuovere a livello mondiale la loro valuta come affermazione del proprio potere politico.

Il bilancio commerciale e le esportazioni non sono la loro priorità. A loro interessa il potere politico. Una cosa difficile da capire per noi europei del XXI secolo.

Puntare sulla affermazione dello yuan non è quindi solo una ipotesi basata su calcoli finanziari, ma è qualcosa di più che riguarda lo studio della Storia e della Geopolitica.

Si tratta di ipotizzare che alcune nazioni siano ancora in grado di adottare strategie politiche di respiro globale, più che meri calcoli economici.

Si tratta di credere ancora che esista una Storia e che il destino di alcune nazioni non sia solo determinato da meccanismi automatici di tipo ecomonico, ma dalla affermazione di una potenza politica che utilizza anche l’economia, ma a un livello strutturale incomparabilmente superiore.

E’ uno di quei rari casi in cui una scelta di investimento diventa quasi un’ipotesi culturale di tipo storico e geopolitico.

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Alla tua prosperità!

Paolo Rebuffo